Gelsibachicoltura: luci ed ombre sulla ripresa di quest’attività in Europa

Articolo pubblicato sulla rivista di divulgazione di Cultura Agraria dell’Accademia Nazionale di Agricoltura (n.5 – Dicembre 2022)

di Silvia Cappellozza e Alessio Saviane – CREA di Padova


Tra excursus storici, dati produttivi e nuovi utilizzi innovativi della Seta e dei suoi sottoprodotti, i ricercatori del Laboratorio di Gelsibachicoltura di Padova, centro d’eccellenza riconosciuto a livello internazionale, hanno redatto un’oggettiva e dettagliata disamina sul passato, il presente e le future potenzialità di sviluppo della gelsibachicoltura, in particolare in ottica italiana ed europea anche grazie ai progetti finanziati a livello Regionale e Comunitario (tra cui il progetto Serinnovation).
Di seguito alcuni brevi estratti dell’articolo, che permettono di cogliere la completezza dei contenuti resi fruibili tramite questa pubblicazione, oltre a far intuire la competenza, la capacità di analisi e la visione pragmatica che è necessario mettere in campo per poter vincere la sfida della ripartenza della filiera serica 100% Made in Italy.

… negli anni 70 del XX sec. chiudono in Italia le residue filande e l’ultimo impianto di produzione di uova di baco da seta, ormai non più competitivi. […] Gli industriali europei già dagli anni ’70 avevano trasferito in Cina gli impianti di trattura (svolgimento del filo dal bozzolo sericeo) e parte di quelli di torcitura (stretto intreccio di più fili di seta per rendere la fibra più resistente durante la tessitura), ovvero i segmenti industriali a più alto costo di manodopera e con i maggiori costi energetici ed ecologici (consumo e depurazione dell’acqua); naturalmente erano allettati dal basso costo dei salari della forza lavoro locale e dalle permissive regolamentazioni ambientali e di tutela dell’impiego. Comportamento miope, come si rivelerà a posteriori, che causerà la perdita di un importante know-how industriale e una completa dipendenza dai Cinesi per l’importazione della materia prima.

In realtà, l’Europa non era stata completamente inerte a guardare la rovina della propria sericoltura. La comunità europea aveva corrisposto agli agricoltori dal 1972 al 2014, ovvero per oltre 40 anni, il contributo ad ogni “telaino” (20.000 uova) di baco da seta allevato, sulla base del Regolamento 922/72, purché l’allevatore raggiungesse una produzione unitaria di almeno 20 kg di bozzolo fresco. Questo, se da un lato ha permesso il mantenimento almeno del know-how agricolo, e ha fornito la giustificazione alla salvaguardia del patrimonio genetico del baco da seta e gelso, non ha avuto, d’altra parte, l’effetto sperato di riavviare una reale produzione, per la mancanza di volontà da parte dell’industria tessile europea di investire in una collaborazione con gli agricoltori locali, avendo a disposizione abbondante materiale a basso costo in Cina. Paradossalmente il sostegno comunitario è cessato, a causa dell’entrata in vigore della nuova PAC, nel 2014.

Sulla base di questa disamina è chiaro che globalizzazione, mancanza d’innovazione, scarsità di visione a medio-lungo termine e di programmazione delle politiche agricole e industriali, sia da parte del decisore pubblico, sia da quella delle classi dirigenti private, sono alla base della perdita di un patrimonio di conoscenze, tradizioni, e potenziale ricchezza per le generazioni future. Ora il punto è: allo stato attuale siamo in grado di invertire la direzione di marcia?

… già a partire dal 2011 si diffonde un allarme per un rialzo strutturale del prezzo della seta, soprattutto quella di ottima qualità utilizzata in Europa, rialzo dovuto a problemi interni del monopolista cinese […]. A questo si aggiunga che la seta ha cominciato, sempre più negli ultimi anni, ad essere utilizzata per scopi non tessili. Le industrie cosmetica, biomedica e dei nuovi materiali hanno sviluppato applicazioni innovative di grande importanza tecnologica, che prese singolarmente non implicano la richiesta di grossi volumi di bozzolo e rappresentano mercati di nicchia, ma che nel loro insieme, cominciano a dare prospettive interessati per nuove produzioni.

Ciò che gli industriali tessili temono, un aumento del prezzo della fibra determinato da un aumento della domanda, in realtà è ciò che gli agricoltori europei auspicano, ovvero un ritorno alla possibilità di essere competitivi su un mercato dove il prezzo del bozzolo viene remunerato per il suo reale valore. Ma come trovare una mediazione tra questi due interessi contrapposti?

Ricominciando a progettare da capo il processo della pratica gelsibachicola in Europa, la potremmo già pianificare in termini ecologicamente sostenibili; infatti, se l’attività fosse svolta in maniera non intensiva, ovvero con un numero ridotto di cicli (da 1 a un massimo di 3 per anno), secondo i principi tecnici descritti nel disciplinare di gelsibachicoltura biologica messa a punto dal CREA nel 2015, in dimensioni aziendali ridotte, in cui il gelso è inteso come coltura integrativa, o in un regime di agroforestazione, sarebbe una filiera agricola non solo a basso input di fitofarmaci, concimazioni e irrigazione, ma anche benefica per il controllo di erosione, l’assorbimento della CO2 atmosferica, la valorizzazione paesaggistica dei nostri territori, e la mitigazione climatica.
L’idea è di produrre grandi quantità di seta, gradualmente, a partire da molti agricoltori, che dedicano alla gelsibachicoltura solo quota parte della loro azienda, come si faceva una volta, e non di stabilire colture intensive su centinaia di ettari. Questo modello è sempre fallimentare come si è potuto constatare nel caso della vite o del melo, perché i danni ambientali superano i benefici economici. Le filande, anziché essere grandi impianti energivori, potrebbero essere realtà dislocate e flessibili, di piccole dimensioni, dove si recupera sia la sericina (una delle proteine della seta), sia le crisalidi, secondo i principi dell’economia circolare; questi impianti potrebbero essere regolamentati per gli scarichi, alimentati con fonti di energia rinnovabile e realizzati con un alto contenuto d’innovazione.

Chi acquista ha compreso che il proprio comportamento influenza il sistema produttivo e l’ambiente, determinando, in una rete complessa d’interazioni, la qualità della propria vita. Desidera sempre più trovare sul mercato prodotti naturali, creati vicino al luogo in cui abita e di cui conosce la storia e può ricostruire traccia. Questa consapevolezza nuova è basilare per potere dare una svolta “green” all’industria della moda, riducendo l’utilizzo delle fibre sintetiche fabbricate a partire dal petrolio e non riciclabili se non con estrema difficoltà. […] Questo sistema, che creerebbe anche diversificazione colturale e maggiore redditività per le nostre aziende agricole, avrebbe, in aggiunta, un valore sociale e di occupazione e si inserirebbe in una dimensione ulteriore agrituristica e di recupero di tradizioni e culture rurali, per un turismo lento e consapevole.

In tutto questo la ricerca dovrà avere un ruolo importante, per fare recuperare competitività, per aiutare a fare evolvere prodotti di livello superiore, per permettere di destinare i vari sottoprodotti a segmenti industriali diversi, per automatizzare i processi agricoli e renderli più precisi e meno gravosi per l’agricoltore in termini di manodopera. I sottoprodotti del baco da seta e gelso devono essere valorizzati a 360 gradi, includendo anche la loro valenza alimentare e nutraceutica per animali e uomo, ormai sdoganati, nel caso del baco, dall’autorizzazione di altre specie d’insetti come mangimi e cibo da parte di EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare).
L’ottenimento di questo risultato richiede che le aziende interessate dai vari settori dell’economia circolare rappresentata da bachicoltura e gelsicoltura, siano capaci di collaborare in maniera coordinata e non prevalente, per contribuire a dare un reddito agricolo sostenibile all’agricoltore e, d’altro canto, rinuncino all’idea della minimizzazione del costo della materia prima per la massimizzazione del guadagno; ciò implica una ridistribuzione del valore aggiunto lungo la catena produttiva, in cui si dovrebbe ipotizzare che tutti gli anelli ottengano una giusta parte del reddito, in una visione etica e socialmente sostenibile.

In estrema sintesi, l’Italia è l’unica nazione in ambito europeo che può fare da traino per la ripresa della sericoltura perché è la sola a possedere conoscenze scientifico-tecniche ed esperienze organizzate e radicate in ambito gelsibachicolo, oltre che a possedere un patrimonio di razze di baco da seta e varietà di gelso, prerequisiti per una qualsiasi ripartenza; vanta, inoltre, una delle più attive industrie seriche a livello europeo, almeno nei segmenti finali della fase di processazione della seta; per queste due ragioni fondamentali ha un ruolo di leadership, riconosciuta a livello europeo, ma anche mondiale; è dotata del valore aggiunto costituito dal “made in Italy”, che da solo costituisce un “plus”, oltre che di un’eredità formidabile rappresentata dall’armonia di territori, cultura e tradizione, che ne fanno una meta turistica ambita.
La più grande criticità sta nella difficoltà nel porsi come collettività “Paese” e di fronte alle sfide, soprattutto quelle complesse, che coinvolgono la partecipazione di più attori: istituzionali, del mondo dell’industria e dell’agricoltura. La ripresa di un’attività di questo genere è un laboratorio unico (e potrebbe essere un’esperienza pilota anche per altre filiere) per liberare idee, creatività, interconnessioni; può essere una sfida affrontata per essere vinta, se si riuscirà a dialogare fra i diversi stakeholders per superare gli ostacoli (concorrenza da parte di mercati internazionali globalizzati, prezzi volatili, crisi energetiche, cambiamenti climatici, conflitti…) o per essere persa, se ciascuna delle parti in causa porrà in campo una visione limitata, individualistica e finalizzata a massimizzare i guadagni e le ambizioni nell’immediato, piuttosto che a costruire un sistema produttivo duraturo e resiliente.


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Per gentile concessione dell’editore: Accademia Nazionale di Agricoltura

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